albert
SERRA

Albert Serra è nato nel 1975 a Banyoles, una cittadina a poche decine di chilometri da Girona, in Catalogna. Si è diplomato in letteratura spagnola e in lettere comparate all’Università di Barcellona dove ha frequentato anche i corsi di storia dell’arte.  Nel 2004 arriva al cinema. E’ la Quinzaine des Réalisateurs a scoprire “Honor de cavalleria”, che si ispira in modo molto libero al Don Chisciotte,rivelandolo al pubblico internazionale. Serra, che oltre a firmare la regia è anche autore della sceneggiatura e produttore del film, diviene subito uno dei talenti del cinema contemporaneo. Honor de Cavalleria fa il giro del mondo vincendo premi in numerosi festival internazionali. Il secondo film, una nuova scommessa vinta, nonostante la pesante eredità di quell’esordio così folgorante. El Cant dels ocells (2008), che la Quinzaine presenta ancora una volta in anteprima, conferma la straordinaria visionarietà del regista, e quella sua maestria a costruire storie con le immagini, utilizzando la memoria più straordinaria del cinema. Serra che è anche stavolta autore della sceneggiatura, gira in bianco e nero, ripercorrendo un’altra mitologia, assai più complessa, come la nascita di Cristo.

Alber Serra è un ragazzo simpatico. Dandy con humour ha un bel senso dell’ironia, ama scherzare, fare tardi la notte, parlare di cinema. È cinefilo ma non con quell’ossessività noiosa che troppo spesso contraddistingue la categoria. Piuttosto è conversatore raffinato, eccentrico, col gusto di scoprire sinergie, unire immagini diverse, muoversi su un confine mai stabilito. Un po’’ come accade nel suo cinema.

«Faccio sempre il contrario di quello che mi si dice» dichiarava ai tempi di Honor de cavalleria, facendo suo un precetto di Salvador Dalì per il gusto di provocare (almeno un po’), per l’innata fierezza catalana e perché è vero. Quando, infatti, Honor de cavalleria (era il 2006) è planato sugli schermi cannesi, da Olivier Père per la selezione della Quinzaine des Realisateurs, l’effetto è stato quello di una sorpresa. Anzi, meglio ancora, di uno scossone. C’erano già stati cineasti formidabili nel tempo contemporaneo come Lisandro Alonso ma Serra, in pratica sconosciuto, arrivava con un oggetto misterioso, estremista, affascinante che imponeva allo spettatore cinematografico - e più in generale alla cultura dello spettatore - di rimettere in questione qualsiasi suo fondamento teorico.

Il punto di partenza per quel film era il Don Chisciotte.  Subito, leggendo la sinossi, un pensiero attraversava la testa del più malvagio: ma come, dopo Orson Welles e il suo carico di tragica leggenda del capolavoro incompiuto, può mai pretendere un ragazzetto appena trentenne, e senza esperienza, di cimentarsi col testo sublime di Cervantes? Serra è spagnolo, anzi catalano, ma poteva bastare a risolvere l’impasse? Invece appena seduti in sala, a luci spente, man mano che lo schermo ci regalava quel suo universo allucinato e bizzarro, era evidente di trovarsi di fronte a un talento geniale. Bastava che Chisciotte e Sancho parlassero in catalano, una bella dissacrazione per un classico della letteratura spagnola. "Il tema non è interessante, le avventure non sono interessanti, quindi dov’è la sostanza"? "In tutto quello che non si vede, che non è apparente, cioè, l’atmosfera e la quotidianità" dice Serra

.Gli attori, magnifici, Lluis Carbò e Lluis Serrat sono entrambi non professionisti, il punto di partenza nella relazione con il testo, è quello dell’esperienza delle riprese: un viaggio cinematografico e biografico in cui il vagabondaggio di Don Chisciotte e Sancho si specchia in quello di Serra e della troupe. . "Normalmente i giovani registi hanno sempre uno stereotipo": fanno film di ambientazione urbana con storie attuali e tematiche giovanili. Contro tutto questo ho voluto rivendicare la tradizione del film classico. Ho deciso di girare in digitale, cosa che di solito si associa ai film urbani, moderni, pieni di effetti speciali.

Il mio invece è un film contemplativo, atmosferico, dove prevalgono i paesaggi. Abbiamo girato tutto in esterni naturali, non ci sono interni, non c’è nessuna scenografia, nessuna costruzione fatta dall’uomo. La scelta di attori non professionisti rimanda alla grande tradizione di Bresson, Pasolini, Olmi.

Honor de cavalleria viene girato in quindici giorni, in digitale nonostante sia completamente in esterni, con luce naturale. In questo senso straub-huillettiano, più che per quello straniamento fisico nel movimento dei due personaggi. I quali vagano giorno e notte alla ricerca di strabilianti avventure, cavalcano attraverso campi e terre straniere parlando di spiritualità e di cavalleria, dividendo l’esperienza quotidiana della vita.

Serra ha scritto la sceneggiatura insieme a Jimmy Ginferrer e Montse Triola (quest’ultima anche produttrice del film con lui), anche se il testo di per sé conta poco. Valgono i movimenti del cielo e della terra e le storie infinite che i due uomini possono incrociare sul loro cammino. E valgono le passioni dell’autore, il cinema di Ozu e di Godard, Lancellotto e Ginevra di Bresson, per citarne alcuni, disseminati senza sottolineature in una trama di bellezza e di semplicità. La terra maledetta di guerre e di miseria, si unisce al cielo minaccioso che gli studi di pittura del regista fanno più blu di un Tumer, per entrare nel mistero della poesia. L’umano in quel paesaggio sono solo i due uomini, l’uno il maestro, l’altro che lo accompagna tenendo bene a mente di fronte ai deliri di una moderna nevrosi, quale esprime Don Chisciotte, la sua concreta sapienza antica. Per cui un albero è un albero ... EI Cant dels ocells, il suo secondo film, che la Quizaine ha voluto ancora una volta sui suoi schermi, non tradisce la sorpresa iniziale, e conferma la genialità del suo sguardo. La storia è antica, anche di più, si narra il viaggio dei tre Re magi verso il piccolo Gesù Bambino. I tre uomini, due anziani, gli stessi attori che incarnavano Don Chisciotte e Sancho, e un giovane (Lluis Serrat Masanellas) vagano nel bianco nero di un cielo grigio, quasi sporco.  Si tuffano coi loro corpi ingombranti nell’acqua come nell’Atlante di Vigo, corrono nella sabbia come in un’ allucinazione oppiacea delle canzoni di Jim Morrison.  La Madonna, San Giuseppe e il Bimbo sono tre figure immerse nella normalità della vita, la giovane donna gioca col piccolino come ogni mamma, Giuseppe sonnecchia sull’uscio, lei stanca lascia la posa di un quadro nel quale è già proiettata e inizia a stuzzicare l’orecchio dell’asino. L’angelo vestito di bianco qui non sembra fosse mai stato consapevole di dire, un giorno, la parola di Dio. Armato di Handycam che non padroneggia al meglio si aggira anche lui sull’isola dl Fuertaventura tra quegli stravaganti catalani. Eppure il senso del sacro è predominante in ogni sequenza. Giuseppe è il critico canadese Mark Peranson, Maria è Montse Triola perché un’altra delle specificità di Albert, che dice di avere scritto la sceneggiatura del Canto degli uccelli in trenta giorni, è lavorare sempre con lo stesso gruppo di amici.

 

Incontriamo Albert Serra a Cannes, dopo la proiezione di Il Canto degli uccelli. La terrazza della Quinzaine è piena di sole e di vento, un pomeriggio azzurro come il cielo.

 

Quando hai cominciato a lavorare su «Honor de cavalleria», come ti sei posto rispetto al testo originale dl Cervantes?

Non ho mai pensato a un vero e proprio adattamento letterario. Piuttosto avevo in mente di lavorare sugli spazi bianchi che separano un capitolo dall’altro. È lì che possiamo fantasticare su quei due uomini che si parlano appena senza fare nulla. È stata molto importante la lezione di 0zu, soprattutto per come interpretare la bellezza. Non volevo tradurre la storia di Don Chisciotte in chiave moderna, volgarizzandola magari con una scelta dei passaggi più conosciuti.  Le poche scene che rimangono dal testo sono forse quelle più marginali ne1 plot ma che per me esprimevano una fortissima potenza poetica.  Alcune cose sono state inventate da noi, altre arrivano da fonti diverse come Chretien de Troyes, o gli studi di Matti de Riquer.  Volevo mettere in luce l’aspetto astratto di questa storia, creando anche un po’ di confusione tra i due personaggi e a vita reale dietro di loro, quella degli attori e della troupe che stavano facendo il film.

 

Era comunque quel «nulla» che volevi trasformare in immagine?

Un po’. Diciamo che volevo utilizzare la macchina da presa come se fosse una spia, piazzandola molto in basso, sull’erba, e un po’ distante dai personaggi. Agli attori non ho mai dato un testo. Gli urlavo delle indicazioni durante le riprese. Loro ripetevano le cose dopo di me. In montaggio ovviamente abbiamo cancellato la mia voce.  Spesso Chisciotte diceva una cosa e Sancho, che pènsava di dover rispondere subito, aspettava qualche istante la mia frase. In questi momenti di sospensione, gli avevo ordinato categoricamente di non fermarsi mai, di continuare a recitare senza guardare verso la macchina da presa. Dovevano contemplare il cielo o il tempo che passava .. Alcune riprese sono andate vanti così anche per quaranta minuti. Cercavo soprattutto la bellezza dell’interpretazione.

 

 

E’ per questo che hai deciso di utilizzare il digitale?

Sì, visto il mio metodo girare in pellicola avrebbe avuto dei costi impossibili. La gran parte del budget (360000 euro) è stata spesa negli aspetti tecnici. Abbiamo lavorato in maniera quasi scientifica, scegliendo la macchina da presa che restituisse al meglio la luce selvaggia della natura, anche se era la meno costosa (una Panasonic Dvx). Non ho voluto un Hd ma una Mini - Dv, e il trasferimento in pellicola, dove pure abbiamo cercato di spendere il meno possibile, è stata fatta rispettando il massimo l’immagine originale. Quando ho girato Honor de cavalleria non conoscevo il cinema di Straub-Huillet, i miei riferimenti erano piuttosto Rossellini o il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Non volevo essere eccentrico e tantomeno magnificare la natura. In campo ci sono sempre i due protagonisti, non c’è mai un paesaggio da solo... Non mi piace neppure imporre un senso al film, una lettura predeterminata, è una cosa che mi fa vomitare. Mi piace che ogni spettatore trovi la sua dicendomi cose sul film che non so neanche io. In fondo eravamo e siamo gente semplice, Honor de cavalleria l’ho girato la mattina presto e la sera, per via della luce ma anche perché sia io che gli attori facevamo la siesta. Siamo un gruppo di vagabondi, un po’ travolti dalla tramontana. Eccomi piace pensare che con quel film ho voluto osservare gli effetti della tramontana su noi catalani.

 

Veniamo al « Cant dels ocells »  «il  canto degli uccelli».  Avevi molta paura del secondo film? Di salito è l’appuntamento più difficile per ogni cineasta, e specialmente dopo un successo così travolgente come è stato Honor de cavalleria».

In realtà no, anzi volevo continuare sulla strada iniziata con Honor de cavalleria ma in modo più astratto, distaccandomene in un certo senso. Se poi questo era un modo per liberarmi della paura o esorcizzarla lascio a te l’interpretazione. A dire il vero dopo la centesima volta che quel film veniva proiettato, ho cominciato a essere stanco dell’umanesimo piccolo borghese dei paesaggi.

Ho pensato che il mio film successivo doveva essere diverso. Abbiamo deciso di girare in un luogo scovato su Google Earth quindici giorni prima che il film cominciasse. Ho fatto un viaggio di ricognizione in Islanda, alle Isole Canarie e in Francia per cercare una location dove registrare direttamente i suoni senza alcun rumore. Non mi piace il mondo moderno e per questo ho scelto di girare un film sui Re Magi. In realtà nessuno sa se erano re o maghi, non sappiamo nulla di loro, secondo alcune fonti erano quattro, secondo altre addirittura dodici. Per me era la condizione ideale: personaggi e paesaggi di cui non sapevo nulla. In Honor de cavalleria c’era ancora una dimensione drammatica molto evidente resa dalla diversità dei due personaggi, era una cosa che volevo superare.

 

Però anche stavolta la dimensione fondamentale è quella del viaggio. l tre Magi si muovono in questo paesaggio molto visionario, direi quasi lisergico, per portare i doni al Gesù appena nato.

Una prima grande differenza rispetto a Honor de cavalleria è la quasi totale assenza di dialoghi. In Honor c’è una trama, anche se minima, con dei personaggi definiti che ti chiedono un lavoro drammaturgico. Qui non c’è, cosa che naturalmente rende molto difficile scrivere dei dialoghi. Se devo fare un paragone, direi che come idea è un film molto vicino al Tarantino di Death ath Proof, dove ci sono molti dialoghi e però non si ricorda quasi nulla quello che dicono visto che non c’è assolutamente una struttura drammaturgica. E’ anche un po’ come nel teatro dell’assurdo, i dialoghi sono lì ma non danno nessuna vera informazione, hanno la stessa funzione del paesaggio o degli attori che si muovono nel film per farlo andare avanti e sviluppare il suo soggetto.

C’è poi un’altra differenza sostanziale. Honor de cavalleria lavorava su un testo mitologico, un classico senza tempo come Don Chisciotte. La storia dei Magi che attraversano il deserto per rendere omaggio al figlio di Dio appena nato, è molto più forte sia come mito che sul piano simbolico visto che vi si concentra il fondamento della cristianità. Che è anche uno dei motivi più rappresentati dall’immagine, la pittura come il cinema, la lettèratura religiosa e non.

 

È per questo che hai immerso i tre personaggi di questa dimensione così straniata, si direbbe un deserto uscito da una canzone di Jim Morsano, con un bianco nero lisergico e una dimensione del tempo molto poco comune.

Il titolo del film rimanda a una canzone folkloristica catalana molto famosa. Nel film ne abbiamo fatto un arrangiamento solo strumentale...il cammino verso la fede qui è anche fisico, con tutta le .sue difficoltà. Il paesaggio si ispira alla pittura primitiva, medievale ma non vuole essere un’astrazione. Il lirismo che avevo in mente è piuttosto molto moderno. I piani non cercano una prospettiva visiva o psicologica, sono messi uno accanto all’altro a testimoniare questa fede. Credo per questo che Il Canto degli uccelli sia un vero film religioso.

 

 

Da AliasIl manifesto n.13.1.2009